Sunday, September 28, 2008

Il rapporto con gli altri modifica materialmente gli individui

Corriere della Sera 28.9.08
Identità. Aristotele definì l'uomo un «animale politico». Oggi le neuroscienze spiegano perché si realizza pienamente solo nella collettività
Così la società cambia la struttura del cervello
Il rapporto con gli altri modifica materialmente gli individui
di Edoardo Boncinelli

Le potenzialità genetiche degli analfabeti di diecimila anni fa sono analoghe a quelle degli individui alfabetizzati di oggi

Nel cercare di definire e mettere a fuoco l'essenza della natura umana è opportuno, secondo me, distinguere fin dall'inizio la natura dell'individuo singolo da quella del collettivo umano, vale a dire di ciò che si è come parte di una società che possiede una cultura e una storia. In estrema sintesi: come singoli siamo animali — con caratteristiche tutt'affatto peculiari, ma sempre animali — prodotto di un'evoluzione biologica millenaria di natura fondamentalmente erratica; mentre il collettivo umano, e con lui l'individuo che vi appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale, longitudinale e trasversale al tempo, che non ha l'eguale in nessun'altra realtà.
Le moderne neuroscienze hanno, in particolare, definito sempre meglio le caratteristiche della nostra mente e del nostro comportamento come singoli e hanno fornito e stanno fornendo una lezione interessantissima e tutt'altro che da trascurare. Non possiamo però dilungarci qui su questi aspetti, che vanno dalla natura del nostro apparato percettivo a quella della nostra facoltà del linguaggio e della nostra razionalità. Ma l'uomo è caratterizzato soprattutto dalla sua dimensione collettiva. Nel collettivo l'uomo trova la sua cifra più vera e letteralmente unica. Nessuno da solo può raggiungere una qualsiasi conclusione che sia diversa da quanto gli fanno credere i suoi sensi, ma un collettivo sì. Le conclusioni dei singoli possono essere avallate, contraddette o corrette da un collettivo di uomini operanti in un sufficiente lasso di tempo. Da soli non avremmo una logica, che è una costruzione eminentemente collettiva, visto che nessuno di noi è perfettamente logico. Da soli non avremmo una scienza, prodotto di una continua interazione fra uomini e fra uomini e cose. Da soli non avremmo una storia né la capacità di conoscere fatti di terre lontane. Anche se ci impegnassimo allo spasimo, ciascuno di noi non vive abbastanza per raggiungere da solo tali obiettivi.
Aristotele definì a suo tempo l'uomo un «animale politico» cogliendo così allo stesso tempo l'aspetto della sua socialità e della sua interattività. L'uomo è in effetti un animale sociale, anche se meno perfetto dei membri di altre specie, come ad esempio gli insetti sociali, ma il punto è che l'uomo deve assolutamente essere sociale per essere uomo. Non tanto e non solo perché vivere in comunità è utile per condurre una vita migliore, ma perché è il vivere in un collettivo, almeno per un lungo periodo iniziale, che fa di un essere umano un essere umano. Si direbbe piuttosto un animale sociale obbligato o meglio ancora un animale culturale obbligato, animale della famiglia, del gruppo e della polis.
Se accettiamo la dicotomia, che è al tempo stesso anche una complementarietà, tra individui singoli e collettivo umano, sembra inevitabile una domanda: come può la dimensione culturale collettiva retroagire così profondamente sulla natura di ciascuno individuo da rendere tutti noi uomini quelle creature tanto uniche che siamo? Alla nascita nessuno di noi è un figlio del suo tempo e forse neppure un uomo come ci piace intenderlo. A tre anni è certamente un essere umano a pieno titolo e a cinque-sei è generalmente un figlio del suo tempo, anche se ha ancora tante cose da imparare. Che cosa è successo in questo periodo? È successo qualcosa di molto particolare e veramente unico. L'interazione continua con le persone che lo circondano e la comunicazione verbale e non verbale che ha animato il suo piccolo mondo hanno materialmente cambiato il suo cervello e contribuito giorno per giorno a proteggere e rinsaldare i risultati di tale cambiamento.
Non conosciamo tutti i dettagli dei processi che hanno luogo in ciascuno di noi durante questo periodo, ma sappiamo che alla nascita il cervello dell'essere umano non è ancora completamente sviluppato. Noi nasciamo con un cervello ancora piuttosto piccolo, rispetto a quello che sarà poi, e che ha bisogno di anni per raggiungere il suo pieno sviluppo. Come conseguenza di questa nostra particolarità, il nostro cervello finisce di svilupparsi mentre si trova già in contatto con il mondo esterno tramite gli occhi, gli orecchi, l'epidermide e tutti i terminali sensoriali.
Quanto è potente quest'azione? E soprattutto che tipo di realtà instaura, che non ha l'eguale in nessun'altra? La trasformazione dell'animale uomo in un essere fondamentalmente culturale non è un prodotto diretto dei suoi geni, ma accade per ogni essere umano dalla notte dei tempi. È un evento necessario ma non geneticamente codificato e con uno sbocco necessariamente un po' diverso da epoca a epoca, da luogo a luogo, da individuo a individuo. Ha tutta l'aria di un corto circuito che s'innesca ogni volta partendo da zero e non lascia traccia. Un fenomeno nuovo, non facile da inquadrare, ma non impossibile da immaginare. Si consideri la scrittura. Diecimila anni fa nessuno scriveva e anche oggi c'è gente che non sa né leggere né scrivere. Le potenzialità genetiche sono le stesse negli analfabeti di ieri e di oggi come in chi al presente legge e scrive quotidianamente. La differenza è fatta dall'ambiente umano nel quale ci si trova a crescere e poi a vivere. Quando nessuno sapeva scrivere era normale vivere una vita che prescindesse da tale attività. Tutto era organizzato in modo da funzionare anche senza la notazione scritta.
Nelle regioni dov'è stata inventata la scrittura, però, è cominciata un'opera d'informazione e di formazione che ha portato i ragazzi ad apprendere molto presto gli elementi del leggere e dello scrivere. Questa pratica, che coinvolge tanto un apprendimento cognitivo esplicito quanto uno procedurale e irriflesso, si è così diffusa, mantenuta e propagata. Una volta inventata, la scrittura ha interessato e interessa un numero enorme di persone perché queste sono state precocemente immerse in un flusso di informazione che non si arresta. È utile che uno sappia scrivere, ma non è tuttavia necessario, né biologicamente né a volte purtroppo socialmente. C'è bisogno, per così dire, di un «innesco»; mentre una volta innescato, il processo si mantiene da solo, anche se a costo di un notevole sforzo organizzativo collettivo. Potrebbe anche darsi che pure il linguaggio parlato sia stato un processo che ha avuto bisogno originariamente di un innesco e che si mantenga attraverso il suo uso continuato.
Ogni individuo di ogni generazione diviene quindi un individuo umano grazie alla sua precoce immersione in un ambiente di esseri umani che, nonostante le loro peculiarità e le loro tradizioni, condividono alcuni tratti cognitivi e comportamentali comuni inconfondibilmente umani. Quest'immersione ha luogo quando ancora il cervello di ogni individuo è immaturo e capace di andare incontro ad un complesso di micromodificazioni di un certo tipo piuttosto che a quelle di un altro. Il mondo umano circostante si stampa in sostanza nel corpo e nel cervello di ciascuno di noi.

Friday, September 26, 2008

Artemide

Tetradramma della Macedonia con testa di Artemide nello scudo Macedone sul diritto, mazza e leggenda in corona di quercia sul rovescio. coniato dopo la costituzione della provincia romana.

"Pericle insegnami che cos'è la legge". La legge e le sue ragioni

La Repubblica 26.9.08
"Pericle insegnami che cos'è la legge". La legge e le sue ragioni
di Gustavo Zagrebelsky

«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un´ovvietà. Per intendere però l´importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un´immagine aristotelica, l´immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c´è anche una risposta all´eterna questione, del perché l´opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all´attualità
Una richiesta confessionale che dovrebbe valere anche per i non credenti
La formula di Ugo Grozio per la legislazione era "Come se Dio non ci fosse"
Si deve essere disposti, nel confronto con gli altri, a difendere i propri principi
Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell´opinione dei più, c´è un motivo pragmatico che la fa preferire all´opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un´armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d´intelligenza».
Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all´opera comune, dando il meglio che c´è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest´immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell´immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un´obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all´opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l´esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore.
Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c´è, bene; se non c´è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l´occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l´esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l´infedele»), indipendentemente dall´ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.
Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L´esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell´etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall´ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall´esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l´esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell´antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l´esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l´invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all´autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l´imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).
Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un´idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell´eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l´essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l´indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch´essa permanga tale fino all´ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale». Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell´esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull´importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch´esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell´ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l´eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell´assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.

Statere con Zeus

Statere d'argento dell'Elide riproducente la testa del Zeus di Fidia.

Moneta con Artemide

Tetradamma della Macedona coniato dopo la conquista Romana della regione e prima della sua trasformazione in provincia: buso di Artemide su scudo, mazza e leggenda in corona di quercia.

Saturday, September 13, 2008

Topi che ridono e maiali che provano nostalgia

Topi che ridono e maiali che provano nostalgia

Liberazione del 11 settembre 2008, pag. 17

di Annamaria Manzoni

Chiunque abbia un animale sa perfettamente a cosa ci si riferisce quando si parla dei loro sentimenti e delle loro emozioni; conosce l'imbarazzante capacità del proprio cane di immensamente gioire per ogni ritorno quotidiano del suo compagno umano rimasto lontano solo per poche ore come quella di farsi invadere dall'angoscia con crisi di inappetenza al solo vedere ricomparire valigie che risvegliano il ricordo di separazioni inaccettabilmente prolungate; distingue il miagolio di protesta da quello di pigra soddisfazione del micio di famiglia; addirittura si accorge quando gli scatti del suo pesce nell'acquario testimoniano inquietudine e nervosismo o invece, sinuosi e lenti, lo rivelano appagato e tranquillo.
Insomma, la conoscenza e la familiarità, mediati dall'affetto, consentono di prendere atto dell'esistenza articolata di un mondo interiore degli altri animali, fatto per altro già evidenziato alla metà del 1800 da Darwin, che aveva riconosciuto che essi provano emozioni di tutti i tipi: sono gelosi e nostalgici, sentono simpatie ed antipatie, sanno divertirsi e desiderano giocare.
Altri studiosi più recentemente hanno evidenziato che tali caratteristiche non sono tipiche solo dei nostri animali di affezione, ai quali siamo orgogliosi di riconoscerle, ma appartengono anche a specie insospettate. E' stato dimostrato, per esempio, che giovani porcellini d'India subiscono una forma di stress collegabile ad un vissuto di tristezza se vengono separati dalla madre; che gli orango manifestano gioia di vivere quando per esempio giocosamente agitano le mani nell'acqua, che i bufali talvolta si lasciano scivolare sul ghiaccio con muggiti di piacere e i macachi che si divertono a tirarsi palle di neve.
Non tutti sanno poi, e forse preferiscono ignorare, che persino i topi, sì proprio loro, sono in grado di provare solidarietà di specie e addirittura di ridere, quando per gioco si azzuffano con i loro simili, o quando qualche "ricercatore" si prende la briga di accarezzarli sulla nuca.
Insomma, a ben guardare e a metterli tutti insieme, sembra di essere all'interno di uno di quei cartoon destinati ai bambini, in cui ogni animale mette in circolo l'intera gamma dei comportamenti umani davanti ai piccoli spettatori che approvano e assentono senza stupore. E forse non è un caso: perché gli adulti, se non si sono mai posti prima il problema, arrivano ad accettare l'idea della vita emotiva degli animali superando lo scetticismo iniziale attraverso un percorso di conoscenza. I bambini, invece, nella loro naturalezza e con il loro spontaneo sentire, capiscono istintivamente il mondo degli animali, perché, come dice Jeffrey Moussaief ( Nel regno dell'armonia ), «sembrano percepire qualcosa di fondamentale riguardo agli animali e alla loro vita emotiva che gli adulti tendono a dimenticare; avvertono la loro somiglianza al proprio giovane essere».
Quindi, è accertato, gli animali non umani condividono con quelli umani un mondo interno animato da affetti, desideri, nostalgie, emozioni.
Ma purtroppo una gigantesca opera di negazione collettiva ci ha indotto a divulgare ed accettare di molti di loro solo caratteristiche negative e repellenti: non è un caso, perché solo svalutando la loro natura e svilendoli con rappresentazioni sfavorevoli riteniamo di legittimare l'orrendo uso che siamo soliti fare delle loro vite, quando li riduciamo a puri oggetti d'uso segregati nei raccapriccianti allevamenti intensivi, quando li sottoponiamo a dolorosissime amputazioni funzionali al nostro esclusivo benessere, e quando li obblighiamo ad una morte precoce e spaventevole.
Ancora prima degli studiosi, sono stati poeti e scrittori a guardare oltre l'immagine reificata che abbiamo appiccicato addosso a tante specie e a vedere in esse potenzialità che travalicano quelle umane: la compassione di scimmie capaci di lasciarsi morire di fame pur di non nuocere ad un loro simile, la sensibilità degli elefanti che piangono i loro morti con lacrime che solo la limitatezza umana scambia per pura secrezione organica, la giocosità dei maiali che sognano guardando la luna, la paura del vitello condotto al macello che inutilmente muggisce all'uomo il suo strazio.
Credo sia davvero venuto il momento di prendere atto di tutto questo e di vedere il grande errore che è alla base dell'organizzazione che abbiamo dato al mondo, a questo mondo che il premio Nobel per la letteratura Josè Saramago senza eufemismi, definisce sbagliato, non imperfetto: sbagliato. E si augura che «ne venga un altro» che percorra le strade del rispetto e della compassione per ogni essere vivente.
E' un progetto realizzabile? Siamo ancora in tempo per cambiare direzione e risalire dall'abisso di indifferenza e crudeltà in cui siamo precipitati? Ognuno darà la propria risposta e deciderà se ancora ergersi arrogante sopra le altre specie o umilmente mettersi in terra in mezzo agli animali, come diceva Kafka, e solo da lì poter vedere il cielo con le stelle.

Celle dell´Inquisizione affiorano nuovi graffiti

PALERMO - Celle dell´Inquisizione affiorano nuovi graffiti
SABATO, 13 SETTEMBRE 2008 LA REPUBBLICA - Palermo

Torna "Le vie dei tesori" dell´Università. E si inaugura il carcere

I restauri svelano una crocifissione. Quattro weekend di visite e passeggiate con i prof. Si parte il 26

Si comincerà di notte, sotto le stelle, tra le piante dell´Orto botanico, ma il momento clou arriverà con l´inaugurazione del Carcere dei Penitenziati con i nuovi graffiti appena portati alla luce. Il programma della terza edizione de "Le vie dei tesori" è ricco e prevede oltre settanta appuntamenti nell´arco di quattro weekend tematici (l´ultimo di settembre e i primi tre di ottobre), organizzati dall´Università di Palermo.
All´interno del primo, dedicato alla scienza, si terrà la "Notte della ricerca", un´occasione per familiarizzare con un mondo spesso ostico ma affascinante: venerdì 26 i cancelli del giardino storico di via Lincoln resteranno aperti dalle 21 all´una di notte, e i ricercatori dell´Università coinvolgeranno il pubblico in esperimenti, show didattici, osservazioni stellari e laboratori per bambini. Il sabato e la domenica si potrà viaggiare a bordo della barca-laboratorio Borzì, perdersi nella realtà virtuale o essere guidati da robot alla scoperta dell´Orto botanico.
Le bellezze paesaggistiche e architettoniche della città saranno al centro della scena nel secondo weekend (3-5 ottobre), quando storici, geografi, urbanisti, botanici e agronomi dell´Ateneo condurranno i visitatori tra parchi, monumenti, castelli, rioni storici. Lungo i sedici itinerari d´autore, attraverso gli occhi degli specialisti, sarà possibile apprezzare dettagli che sfuggono a uno sguardo distratto.
Sarà la terza settimana, però, a regalare quello che è probabilmente l´evento più atteso e importante: la riapertura integrale - dopo quattro anni di lavori - del Carcere dei Penitenziati, una testimonianza, più unica che rara, delle pene inflitte dagli uomini di Torquemada agli eretici tra l´inizio del Seicento e la fine del Settecento, con testimonianze inedite quali graffiti, invocazioni sui muri e poesie: intere pareti sono state scoperte negli ultimi mesi.
Tra il 17 e il 19 ottobre, infine, si potrà scoprire lo Steri e i suoi tesori che raccontano sette secoli di storia, con visite al magnifico soffitto trecentesco dell´aula magna.
Non indifferente lo sforzo economico, sostenuto interamente dall´Ateneo: «La stretta finanziaria è pesante, ma ci teniamo a dare il senso della presenza dell´Università in città», dice il rettore Giuseppe Silvestri.
a. t.

Il replay della mente così i ricordi nutrono il cervello

La Repubblica 13.9.08
Una ricerca Israele-Usa pubblicata su Science "La memoria è come un videoregistratore"
Il replay della mente così i ricordi nutrono il cervello
di Elena Dusi

A ogni immagine che si forma nella nostra testa si attiva un mosaico di neuroni

Un neuroscienziato sa cosa pensa un uomo prima ancora che lui se ne renda conto. Quando un´idea o un ricordo iniziano a sbocciare nella testa, dei sensori elettrici possono coglierla prima che raggiunga la superficie della coscienza. Lo hanno dimostrato dei ricercatori americani e israeliani in un esperimento pubblicato su Science. Il risultato in realtà lascia un po´ l´amaro in bocca, perché finisce con il paragonare la nostra mente a una sorta di videoregistratore. Semplificando molto, è come se bastasse attaccare una spina elettrica per "osservare" le immagini che scorrono nella nostra testa, nel momento in cui ricordiamo il volto di una persona incontrata ieri o il film visto la sera prima. E se il sensore elettrico è piazzato al punto giusto in quella "centralina" della memoria chiamata ippocampo, raccogliere il ricordo è questione di un attimo: gli scienziati di fronte al video impiegano addirittura uno o due secondi in meno rispetto a quanto non faccia la coscienza di chi ricorda.
Un esperimento come quello guidato da Hagar Gelbard-Sagiv del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele, e da Itzhak Fried dell´università della California a Los Angeles può essere tentato solo su individui gravemente ammalati di epilessia in attesa di un intervento chirurgico. In ogni caso, prima dell´operazione, a questi pazienti va inserita una minuscola sonda che arrivi nelle profondità del cervello, laddove si trova un´area a forma di virgola chiamata ippocampo. È qui che i ricordi vengono immagazzinati alla rinfusa appena arrivano, in attesa di essere scomposti e spediti nelle aree del cervello deputate alla loro conservazione a lungo termine.
Con la sonda posizionata nell´ippocampo di tredici pazienti, i neuroscienziati hanno osservato uno per uno i circa cento neuroni che si attivavano mentre sullo schermo di una tv scorreva una scena dei Simpsons o di un altro telefilm capace di stimolare attenzione e umorismo. Lo stesso esperimento è stato ripetuto mostrando agli individui con l´epilessia delle foto di animali o cartoline con la torre Eiffel o paesaggi diversi. A ogni immagine corrisponde un mosaico di neuroni che si attivano.
L´ippocampo registra questo schema nel momento in cui guarda la foto o la scena del film. Un´ora più tardi, quando ai pazienti viene chiesto di richiamare l´immagine dalla loro memoria, la sonda ha osservate esattamente gli stessi neuroni che si riaccendevano. Ricordare, dunque, è un po´ come rivivere. O più banalmente, come premere il tasto "replay" su un videoregistratore. Ma nonostante il fascino straordinario di riuscire a osservare il nostro cervello mentre lavora con la definizione del singolo neurone, la spiegazione degli scienziati israeliani e americani scatena più domande di quante non ne soddisfi. Dove per esempio viene conservato lo "schema" di accensione dei neuroni relativo a Homer e dove quello che caratterizza Lisa. E come la memoria a breve termine viene processata e trasformata in memoria a lungo termine, in aree lontane dall´ippocampo.

Tuesday, September 09, 2008

Ritorno a Loudun, dove si svolse uno fra i più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo

La Stampa Tuttolibri 6.9.08
Ritorno a Loudun, dove si svolse uno fra i più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo
Il diavolo al rogo nel Seicento è un curato libertino
Il romanzo di Huxley che ispirò tra l’altro la commedia di Whiling, il film di Ken Russell, l’opera di Penderecki
di Masolino D'Amico

Nel terzo decennio del Seicento Loudun, cittadina del Poitou a una cinquantina di chilometri di Parigi, fu teatro di uno dei più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo, semidimenticato in quello successivo, molto indagato dai positivisti ottocenteschi, infine esplorato in tutte le sue sfaccettature da Aldous Huxley in un libro che ispirò tra l’altro una commedia (Whiting), un film (Russell), un’opera lirica (Penderecki).
Suor Jeanne des Anges, giovane priora di un piccolo convento, monacata perché deforme - era quasi nana - e quindi difficile da maritare, si dichiarò improvvisamente posseduta dei demoni inviatile da Urbain Grandier, curato della cittadina; il quale Grandier era aitante, intelligente, eloquente, e notoriamente libertino, avendo un’amante semiufficiale e almeno un figlio illegittimo, sia pure disconosciuto.
Suor Jeanne conosceva Grandier solo per fama, non avendolo mai visto, ma lo aveva invitato per iscritto a diventare confessore della sua comunità ottenendone un rifiuto. Ora l’uomo popolava i suoi sogni; e le sue ossessioni-frustrazioni, condivise con le diciassette tra suore e novizie che dipendevano da lei, esplosero. Le accuse furono avidamente ascoltate sia dalla Chiesa, che prontamente mandò esorcisti, sia dai nemici locali di Grandier.
Gli esorcismi, pubblici e violenti (per prima cosa a suor Jeanne fu somministrato un enorme clistere di acqua benedetta), ebbero l’effetto di esasperare le manifestazioni di squilibrio delle indemoniate, che si svilupparono in veri e propri spettacoli a richiesta, con bestemmie, contorcimenti acrobatici e mostra di nudità. Tenuti a intervalli regolari per alcuni anni, questi diventarono una grande attrazione turistica della cittadina, attirando migliaia di persone anche di alto rango. Alla fine della lunga kermesse, che da Parigi Richelieu non fece nulla per scoraggiare (voleva dare una lezione agli ugonotti di Loudun, non gli dispiaceva saggiare il terreno in vista del restauro di un qualche tipo di Inquisizione, e nutriva rancore verso Grandier, dal quale una volta aveva subito uno sgarbo), l’imputato, mai ascoltato dai giudici, fu atrocemente torturato e bruciato vivo.
Dal canto suo suor Jeanne continuò a lottare coi demoni, dai quali si dichiarò definitivamente liberata solo dopo molto tempo, dando inizio a una carriera di star della santità, prima viaggiando e poi ricevendo in sede, impartendo consigli che venivano dai suoi protettori celesti, infine scrivendo un paio di compiaciute autobiografie.
Unico neo nel complotto dei cacciatori di diavoli, Grandier si rifiutò fino all’ultimo di firmare una confessione di colpevolezza: i tempi non avevano ancora scoperto, commenta Huxley, quei sistemi di fiaccamento della volontà individuale con cui i moderni totalitarismi ottengono invece, sempre, l’autoaccusa delle loro vittime.
Non è questo l’unico raffronto che l’autore promuove tra l’epoca di Luigi XIII e la sua, e qualcuno gli ha rimproverato un eccesso di mentalità scientifica, per esempio di essere stato troppo severo col gesuita Surin, il mistico che tentò di liberare suor Jeanne e che finì semiindemoniato a sua volta, preda di tremendi mali psicosomatici, internato in manicomio e tentato suicida prima di un lento e doloroso recupero. Dopotutto, si obietta, Surin credeva quello che (quasi) tutti credevano ai tempi suoi. Sì, certo: maHuxley fa osservarecome nella propria incrollabile convinzione il gesuita violasse precisi precetti della Chiesa stessa, che ammoniva a non accettare per oro colato niente di provenienza diabolica. Ansiosi di dimostrare il loro teorema, Surin e compagni invece presero per buone le accuse delle suore possedute (se interrogato nel modo giusto, il diavolo non può mentire), e ignorarono le argomentazioni a discarico (il diavolo in questo caso mentiva).
Noi non diamo più credito alla stregoneria, mail punto è che neanche con gli strumenti di allora il processo contro Grandier avrebbe dovuto essere celebrato.
La lezione che Huxley lucidamente ne trae è, guai al fondamentalismo; guai a chi, ritenendosi in possesso della verità, si considera in diritto di calpestare qualsiasi principio o persona. Ma quando nasce il fondamentalismo (religioso, ma anche politico, economico, ecc.)? Secondo Huxley, quando l’uomoperde il contatto con la natura; quando le parole travalicano il rapporto con le cose e si investono di un’autorità propria e dispotica. L’ammonimento appare ancora più attuale oggi di quando il libro fu scritto, più di mezzo secolo fa.

Wednesday, September 03, 2008

Cittadella (pd) - Domenica 7 settembre 2008 - con Reitia

Cittadella (pd) - Domenica 7 settembre 2008 - con Reitia

Cittadella (pd)
Domenica 7 settembre
Con la dea Reitia

Anche quest'anno, per la precisione questa è la quinta sfilata, i pagani e wiccan veneti sfileranno intorno alle mura di Cittadella con gli stendardi della dea Reitia.
Tutti vi posso partecipare, è una festa pubblica.
I pagani e wiccan veneti saranno presenti per tutta la giornata con i loro gazebo in piazza. Durante questa edizione della "Festa dei Veneti", organizzata da "Raixe Venete", vi sarà anche la nostra mostra sui veneti antichi.
"I veneti antichi, alla scoperta della nostra storia antica" e' il tema dell'edizione di quest'anno della festa.
La "Festa dei Veneti" con il passare degli anni si è sempre più affermata, nelle ultime edizioni ha raggiunto le 30.000 presenze. Decine e decine sono i gli espositori.
Per chi vuole partecipare solo alla sfilata, l'orario di partenza degli stendardi è fissato verso le ore 15.00.
Su Youtube si possono trovare i video delle sfilate precedenti.
ciao
francesco scanatta
cell. 349 7554994

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Cittadella (pd) - Domenica 7 settembre 2008 - con Reitia

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Domenica 7 settembre
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Anche quest'anno, per la precisione questa è la quinta sfilata, i pagani e wiccan veneti sfileranno intorno alle mura di Cittadella con gli stendardi della dea Reitia.
Tutti vi posso partecipare, è una festa pubblica.
I pagani e wiccan veneti saranno presenti per tutta la giornata con i loro gazebo in piazza. Durante questa edizione della "Festa dei Veneti", organizzata da "Raixe Venete", vi sarà anche la nostra mostra sui veneti antichi.
“I veneti antichi, alla scoperta della nostra storia antica” e’ il tema dell’edizione di quest’anno della festa.
La "Festa dei Veneti" con il passare degli anni si è sempre più affermata, nelle ultime edizioni ha raggiunto le 30.000 presenze. Decine e decine sono i gli espositori.
Per chi vuole partecipare solo alla sfilata, l'orario di partenza degli stendardi è fissato verso le ore 15.00.
Su Youtube si possono trovare i video delle sfilate precedenti.